STORIE E PROTAGONISTI DELL'ARTO ARTIFICIALE
La forza di Bebe Vio. E di Leo, Paolo,
Danilo e tanti altri che di fronte alle sventure hanno reagito da giganti. Sono
le storie straordinarie di chi, condannato a essere ultimo, è diventato primo.
«Ricordo
che arrivati all’ospedale di Padova, quando il medico ci disse che con quella
meningite c’era il 3 per cento di possibilità di sopravvivenza e che, anche in
quel caso, mia figlia avrebbe subito danni devastanti agli arti e agli organi
interni, non volevamo crederci. Non poteva essere vero, poche ore prima Bebe
tirava di scherma. Non è possibile, ci dicevamo, questo medico delira.
Mandatecene un altro, vogliamo il primario».
Beatrice
Maria Adelaide Marzia (nomi delle nonne), detta Bebe, novembre 2008 fu ricoverata
al reparto di Terapia intensiva pediatrica dell’ospedale di Padova e ne uscì
104 giorni dopo, amputata sotto i gomiti e le ginocchia.
Medaglia d’oro nel fioretto singolare e di bronzo a
squadre alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro e fresca campionessa ai Mondiali di
Roma in entrambe le specialità, Bebe ha vent’anni e la maturità dei trenta.
Vista da qui la crisi della Nazionale di calcio e dello sport italiano è un
altro pianeta. Non è strano che i nostri due atleti più vincenti siano Bebe Vio
e Alex Zanardi? «Nel mondo paralimpico resistono valori che altrove non ci sono
più» risponde Ruggero Vio, padre di Bebe. «Agli ultimi mondiali di Fiumicino si
sono presentate squadre di Paesi minori con carrozzelle tenute su con il filo
di ferro. Allora qualche atleta ha prestato le loro per permettere agli
avversari di gareggiare meglio ed essere più competitivi. Se la immagina una
cosa così nel calcio professionistico? »
E
tu Bebe, in gara, cosa pensi? Hai una frase, un mantra segreto? «Niente mantra.
Immagino sempre di essere in svantaggio. Se pensi che stai vincendo la prendi
facile. Certo, vedo il punteggio ma non lo guardo veramente. Nella gara a
squadre, che è quella che mi piace di più, penso a tirare fuori il meglio di me
per non mettere in difficoltà le mie compagne, Loredana e Andrea».
Bebe
spiega che «le persone con disabilità si dividono fra rancorosi e solari. I
rancorosi sono la maggior parte e sono arrabbiati con il mondo per quello che
gli è successo. I solari, invece, hanno deciso di viverlo come un’opportunità».
Una volta dimessa dall’ospedale ebbe la sua prima vera crisi, durante una
medicazione: «Basta, mi voglio suicidare» sbottò. «Sì, e come pensi di fare?»
aveva scherzato il papà. «Mi butto dal letto». «Rischi di peggiorare la
situazione senza raggiungere lo scopo. Se vuoi ti accompagno alla finestra, se
ti butti dal secondo piano magari… Ma smettila! E goditi quello che hai, ché la
vita è una figata. «Venivamo da un momento difficile» ricorda Ruggero Vio. «Io
e mia moglie ci chiedevamo se avremmo ritrovato il sorriso. E che cosa sarebbe stato
di Bebe una volta che non ci saremmo più stati. Il futuro ci spaventava. Come
si vive senza quattro arti? Abbiamo ricominciato a vivere giorno per giorno:
“Adesso ti devo fare le medicazioni, lo so che sono dolorose, ma non c’è altra
strada”»
.
«Ripiegarsi
sulla propria sfortuna e commiserarsi o ripartire è un fatto d’intelligenza.
Che altro puoi fare se non accettare ciò che ti è successo? È capitato e ormai
non lo puoi cambiare. Quando sento frasi come “era destino che succedesse a
lei” mi vengono i brividi. Non serve star lì a domandarsi perché proprio a me,
che cosa ho fatto di male... Tempo perso. Il tempo lo puoi guadagnare guardando
avanti, trasformando questo fatto in un’occasione. Certo, i momenti di sconforto
ci sono e ci saranno. Tutto dipende dal peso che gli vuoi dare», afferma la
mamma di Bebe.
Bebe
precisa: «I momenti difficili ci sono stati, ma penso che il peggio sia alle
spalle. Quando arrivano cerco sempre il lato positivo e, impegnandomi a
trovarlo, in un certo senso, già mi distraggo. Poi, l’ultima cosa che voglio è
contagiare con la mia tristezza chi mi sta vicino».
Fonte: Panorama
Fonte: Panorama
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